Con le manifestazioni del 25 luglio il presidente tunisino Kais Saied ha colto l’occasione per concentrare tutto il potere nelle sue mani. A Tunisi le proteste erano dirette contro il partito islamico Ennadha e il premier Hichem Mechichi e chiedevano lo scioglimento del Parlamento; attacchi contro il partito islamico si sono registrate anche in altre città come Gafsa, Monastir, Susa e Tozeur. Proprio il riaccendersi delle proteste e la marcata impostazione anti-governativa di queste ha spinto Saied ad accelerare i tempi e a optare per un’azione di forza. Dopo una riunione di emergenza con alti funzionari dell’esercito e dell’apparato di sicurezza, Saied ha deciso di sospendere per 30 giorni il Parlamento, ha revocato l’immunità a tutti i parlamentari, ha destituito il premier in carica Mechichi e ha assunto la presidenza dell’esecutivo per un mese. Tali decisioni vengono giustificate dal ricorso all’articolo 80 della Costituzione, in base al quale “in caso di pericolo imminente che minacci le istituzioni della Nazione e la sicurezza e indipendenza del paese e ostacoli il regolare funzionamento dei pubblici poteri, il presidente della Repubblica può adottare le misure richieste da tale situazione eccezionale”.
A distanza di qualche giorno dalla decisione presa dal presidente tunisino, l’incertezza su ciò che accadrà nelle prossime settimane prevale su tutto il resto. Saied si appella alla Costituzione, nonostante i forti dubbi, espressi anche dagli oppositori del presidente e da molti osservatori internazionali. La chiusura della sede locale di Al-Jazeera appare inoltre come un tentativo di mettere a tacere quelle voci critiche che gridano al golpe. Tuttavia, oggi per le strade di Tunisi sembra regnare la tranquillità. In un sondaggio condotto da Emrhod Consulting, l’87% dei tunisini sostiene la scelta del presidente. Intanto, dopo aver silurato una ventina di alti funzionari governativi, il procuratore generale militare e il direttore della televisione pubblica nazionale, Saied ha licenziato anche il direttore generale dei servizi speciali, Lazhar Loungou, che verrà sostituito dal direttore centrale dell’informazione generale, Mohamed Cherif.
Gli eventi hanno diviso in due il paese. Se i sostenitori di Saied – in particolar modo membri dell’esercito e una grossa fetta della popolazione – hanno accolto con favore le decisioni dell’ex professore di diritto costituzionale, intese come un tentativo di accompagnare la Tunisia fuori dalla grave crisi economica e sanitaria, i rappresentanti di Ennahda e i suoi alleati hanno rapidamente fatto appello in favore della ripresa delle attività del Parlamento, bloccato dallo schieramento dei militari. Il presidente per ora sembra convinto delle scelte compiute. Deponendo i ministri dell’Interno, della Giustizia e della Difesa e decretando la cessazione del lavoro in tutte le pubbliche amministrazioni ad eccezione dei militari, delle organizzazioni di sicurezza, dei servizi sanitari e delle scuole, sembra deciso ad andare avanti per la propria strada. I drammatici sviluppi politici, economici e sanitari stanno chiaramente mettendo a dura prova la fragile democrazia tunisina e probabilmente i prossimi giorni determineranno se il paese è destinato ad una ripresa della sua transizione democratica, a un più profondo consolidamento del potere da parte di Saied o allo scoppio di violenza tra sostenitori e oppositori. Ciò dipenderà soprattutto dai tempi con cui riprenderanno o meno i lavori del Parlamento.
La crisi attuale è stata causata dalla concomitanza di alcuni fattori ed eventi, in particolar modo tre. Il primo è sicuramente la crisi economica che si è sviluppata dopo il rovesciamento di Zine al-Abidine Ben Ali nel 2011 con lo scoppio della rivolta. Un’ondata di attacchi terroristici negli anni successivi ha decimato il settore del turismo, che tradizionalmente rappresentava una grossa fetta del Pil tunisino. Contemporaneamente, le inefficienze strutturali derivanti dal passato regime hanno creato un settore pubblico saturo: quando i nuovi funzionari hanno proposto un taglio di tale spesa, i sindacati ne hanno impedito l’attuazione. Nonostante ciò, la disoccupazione complessiva è rimasta a livelli altissimi: alla fine del 2020, si attestava intorno al 17% (36% tra i giovani). La situazione è stata aggravata dalle fiacche prospettive economiche in Europa (dove la Tunisia dirige circa il 70% delle sue esportazioni) e dalla pandemia di Covid-19. Il governo ha calcolato che avrebbe avuto bisogno di 7,2 miliardi di dollari di prestiti solo per finanziare il deficit previsto per il 2021. In risposta a questi crescenti problemi, nel corso degli anni sono scoppiate ripetutamente proteste che riflettono la diffusa frustrazione per l’economia in crisi e l’apparente incapacità del governo di risolvere tale problematiche.
Il secondo è lo stallo politico che si è sviluppato con l’aspro conflitto tra islamisti e laici. La risoluzione (momentanea) di questo conflitto ha richiesto difficili compromessi che sono stati successivamente sanciti dalla Costituzione del 2014, di gran lunga la carta più progressista nel mondo arabo in termini di libertà individuali e altri principi fondamentali della democrazia. Tuttavia, anche se ha conferito ampi poteri a un’Assemblea legislativa eletta, ha anche riservato responsabilità importanti alla presidenza, che in precedenza era stata l’unica istituzione di governo. Questo sistema ibrido alla fine ha prodotto tensioni quasi costanti tra presidenti e primi ministri. All’inizio, all’enfasi post-rivoluzionaria sul consenso politico e sul compromesso è stato attribuito il merito di mantenere la pace sociale e di facilitare la transizione dall’autoritarismo. Negli ultimi anni, tuttavia, il consenso è diventato una forza paralizzante, rendendo la maggior parte dei partiti politici deboli, altamente personalizzati e incapaci di prendere decisioni politiche coraggiose. Anche lo stesso Ennahda, il partito istituzionalmente più forte del paese, ha vissuto tensioni interni negli ultimi tempi, con alcuni elementi tra le proprie file che hanno accusato Ghannouchi di rifiutarsi di cedere spazio a una nuova leadership e di aver oltrepassato i propri limiti candidandosi alla presidenza del Parlamento. Gli effetti di questo deterioramento sono stati problematici: un elettorato e una classe politica profondamente polarizzati; stallo quasi totale in Parlamento; diffusa disillusione pubblica nei confronti dei partiti politici. L’incapacità di governare e lo stallo politico hanno anche ritardato la creazione di istituzioni chiave, in particolare la Corte costituzionale, che oggi risulterebbe decisiva negli eventi scatenati dalle decisioni di Saied.
Il terzo evento è la pandemia. Il Covid-19 ha fatto crollare il sistema sanitario nel paese: i suoi ospedali sono a corto di ossigeno, il tasso di mortalità per il virus è il più alto nella regione e solo il 8,8% della popolazione è stato vaccinato. Dalla seconda metà del 2021, si è assistito a un netto peggioramento della situazione epidemiologica. Il 21 luglio, il presidente della Repubblica aveva annunciato di aver incaricato il Dipartimento della Sanità Militare dell’intera gestione dell’emergenza Covid-19. La decisione di Saied è arrivata dopo che il primo ministro Mechichi aveva licenziato il ministro della Sanità Faouzi Mehdi per la cattiva gestione della lotta alla pandemia e per la lentezza della campagna di vaccinazione. Il collasso del sistema sanitario di quest’estate segna, quindi, sia il perdurare delle crisi preesistenti, sia un’ulteriore fonte di instabilità. Invece di unirsi per contrastare la pandemia, gli attori politici del paese hanno di fatto innescato un circolo vizioso, scaricandosi le colpe a vicenda e rifiutandosi di assumersi qualsiasi responsabilità. La situazione di emergenza li ha spinti a competere per gli aiuti internazionali, lasciandosi alle spalle l’idea di quel dialogo nazionale necessario a stabilizzare la situazione. La rabbia della gente per il fallimento del governo nell’affrontare la pandemia ha accelerato la presa del potere del presidente Saied. L’emergenza sanitaria ha colpito molto più duramente le regioni tradizionalmente emarginate dell’interno e del sud rispetto alle zone più avvantaggiate lungo la costa. Inoltre, circa la metà del Pil della Tunisia proviene dall’economia informale, il che significa che una larga parte della popolazione non ha potuto accedere nemmeno alle scarse protezioni sociali disponibili. Con l’aggravarsi della pandemia, quei tunisini che all’inizio stavano peggio hanno continuato a soffrire più dei loro concittadini più privilegiati, mentre il numero di tunisini incapaci di procurarsi il fabbisogno minimo è aumentato drammaticamente.
La crisi in Tunisia non andrebbe letta solamente sotto la lente semplicistica della diatriba tra islamisti e forze laiche, ma anche attraverso quella di un conflitto tra istituzioni: è inevitabile lo scontro per decidere chi deve governare il paese in un contesto dove le due principali istituzioni – Presidenza e Parlamento – sono elette direttamente dal popolo. Inoltre, bisogna sottolineare come Saied non abbia un suo partito in Parlamento che lo sostenga nella sua battaglia, quindi per forza di cose deve fare appello alla sua popolarità. Il presidente tunisino potrebbe aver visto in questa particolare fase di crisi e tensione civile uno spiraglio per dare un colpo di grazia ai suoi rivali politici, tra cui il primo ministro Mechichi, il presidente del Parlamento Rachid Ghannouchi, cofondatore e leader del partito islamico Ennahda e i suoi alleati. Ennahda è ormai screditato e considerato tra i responsabili della crisi politica ed economica in corso nel paese nordafricano. I comportamenti mutevoli dal 2011 del partito islamista gli hanno garantito la sopravvivenza politica in un ambiente sempre più ostile; alcune decisioni sono servite a formare un’identità più sciolta e ad allontanarsi da quelle posizioni rivoluzionarie che alienavano parte della sua base e creavano un notevole disaccordo all’interno della stessa. Infatti, diverse correnti si sono rafforzate all’interno del partito di Ghannouchi – che troppo spesso è stato erroneamente considerato un blocco monolitico – anche in opposizione alla leadership ingombrante e accentratrice del suo leader. Parallelamente, Ennahda ha visto ridurre il suo consenso elettorale. Da un sorprendente 37% nel 2011 (89 seggi), al 27% dei voti nel 2014 (69 seggi) al solo il 19% nelle ultime elezioni del 2019 (52 seggi). Da un lato, il declino della popolarità di Ennahda riflette il malcontento dei tunisini per la cattiva gestione della crisi economica: il partito non è riuscito a mantenere le sue promesse di giustizia sociale, uno dei pilastri della sua piattaforma e una richiesta chiave della rivoluzione del 2011. Al contempo, Ennahda ha pagato i suoi sempre più stretti legami con l’establishment e la politica del consenso e del compromesso “a tutti i costi”, che ha stabilizzato il paese ma ne ha impedito le necessarie riforme strutturali. Nel contesto della crisi sanitaria dell’ultimo anno, Ennahda ha mantenuto un profilo basso. Tuttavia, dovrebbe ridefinire in modo significativo la sua strategia per stare al passo con le sfide durature e pressanti della società, della politica e dell’economia. Il rischio per il partito di Ghannouchi è di perdere l’appoggio degli islamisti tradizionali. La sua ideologia è stata col tempo diluita a causa delle costanti collaborazioni con le forze laiche al fine di governare il paese.
Ciò che sta accadendo nel paese nordafricano è stato paragonato da molti al colpo di stato lanciato dal generale Abdel Fatah el-Sisi in Egitto per rovesciare il governo dei Fratelli musulmani nel 2013. Entrambi i leader hanno colto il malcontento popolare nei confronti dei rispettivi governi islamisti e si sono presentati come alternative laiche. In tal modo, entrambi – nella loro visione – hanno risposto all’appello dei cittadini insoddisfatti dei risultati delle loro rivoluzioni e che chiedevano un uomo forte in grado di risolver i problemi del paese. Saied e al-Sisi godono anche del sostegno militare e regionale, soprattutto nei paesi del Golfo, che favoriscono nuovi governi più laici. Ma ci sono differenze fondamentali tra Tunisia ed Egitto. Kais Saied si avvale oggi di un forte sostegno popolare certificato dalla sua elezione a presidente nella tornata elettorale schiacciante del 2019, mentre al-Sisi si trovava in tutt’altra posizione: era ministro della Difesa. Al-Sisi era un generale dell’esercito egiziano e godeva del forte sostegno delle forze armate, ma Saied è un civile e manca di simili livelli di sostegno da parte dei militari. Inoltre, la differenza tra i due eserciti è abissale. Con circa 48.000 uomini, l’esercito tunisino è un’istituzione piccola ma professionalizzata che ha generalmente evitato l’attività politica e per ora sembra seguire gli ordini di Saied. Eppure l’esercito è da tempo concentrato sul controllo delle frontiere e sulle operazioni antiterrorismo, quindi potrebbe non essere attrezzato per gestire gravi disordini interni. Tale compito ricadrebbe probabilmente sul ministero dell’Interno, che ha competenza su una raccolta molto più ampia di unità di polizia e altre forze di sicurezza interna. Infine, la Tunisia ha anche potenti sindacati (soprattutto il sindacato generale tunisino Ugtt che per il momento sembra appoggiare Saied) e una società civile molto più sviluppata di quella che aveva l’Egitto all’epoca della prese di potere di al-Sisi. Proprio il ruolo di mediazione svolto dagli attori non governativi tunisini potrebbe essere importante per plasmare la traiettoria della Tunisia.
Al di là del tragico simbolismo del crollo della democrazia solitaria della regione, la grave instabilità in Tunisia potrebbe avere ripercussioni nell’area. Il pericolo maggiore è per i paesi limitrofi come Libia e Algeria. La maggior parte degli attori internazionali ha chiesto di mantenere la calma e ha esortato i leader politici a rispettare la Costituzione. Per gli Stati Uniti l’interesse è quello di aiutare il paese a ristabilizzarsi e continuare con il suo esperimento democratico. In quest’ottica, l’amministrazione Biden dovrebbe fare pressione sul presidente Saied per chiarire la sua tabella di marcia per porre rapidamente fine alla crisi. La nomina di nuovi ministri sarebbe un primo passo importante in questo senso. L’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e l’Egitto sono forti sostenitori del presidente Saied. Questi paesi accolgono con favore le mosse volte a limitare l’influenza degli islamisti in Tunisia e preferirebbero la formazione di un governo forte e autoritario nelle mani di un solo uomo. Sull’altro versante Turchia e Qatar hanno espresso preoccupazione per la mossa del presidente tunisino. Entrambi hanno sostenuto i partiti islamisti sin dalle rivolte della Primavera araba e hanno interesse a garantire che Ennahda non venga spazzata via dalle azioni di Saied. Tuttavia, sia Doha che Ankara stanno attualmente lavorando al fine di normalizzare le relazioni con Riyad, il che potrebbe incoraggiarli a limitare i loro interventi nel paese nordafricano per evitare nuove tensioni regionali e ostacolare il dialogo in corso. Gli stati europei hanno affermato di seguire da vicino gli sviluppi. L’Unione europea è desiderosa di evitare una crisi che potrebbe portare a una nuova grande ondata migratoria verso le proprie coste meridionali. I principali Stati membri dell’Ue potrebbero raggiungere questo obiettivo proponendo un rinnovato dialogo nazionale – che manca da troppo tempo – al fine di elaborare una road map per uscire dall’attuale crisi.
Mario Savina
[…] quasi un anno dalle decisioni prese dal presidente Kais Saied che hanno frenato il processo democratico, in Tunisia la situazione […]
[…] Dopo aver sospeso il parlamento, sciolto il governo ed esautorato qualsiasi forma di contropotere nel luglio dello scorso anno, Saïed ha introdotto una nuova Costituzione, riducendo notevolmente l’importanza dei partiti politici all’interno del sistema, definendoli come “nemici del popolo”. Particolare attenzione è stata dedicata al principale partito presente nel paese, Ennahda. Quest’ultimo ha guidato la Tunisia nella sua fase post-rivoluzione e nel corso del tempo la sua incapacità di dare risposte alle sfide sociale ed economiche è stata additata come una delle cause principali dell’attuale crisi in cui versa il paese. La sfida tra islamisti e laici è stata tra i fattori che hanno dato vita allo stallo politico che è sfociato negli eventi dell’ultimo anno. La risoluzione di questo conflitto ha richiesto difficili compromessi nel recente passato che sono stati successivamente sanciti dalla Costituzione del 2014. Tuttavia, anche se ha conferito ampi poteri a un’Assemblea legislativa eletta, la Carta ha anche riservato responsabilità importanti alla presidenza, che in precedenza era stata l’unica istituzione di governo. Questo sistema ibrido alla fine ha prodotto tensioni quasi costanti tra presidenti e primi ministri. All’inizio, all’enfasi post-rivoluzionaria sul consenso politico e sul compromesso è stato attribuito il merito di mantenere la pace sociale e di facilitare la transizione dall’autoritarismo. Negli ultimi anni, tuttavia, il consenso è diventato una forza paralizzante, rendendo la maggior parte dei partiti politici deboli, altamente personalizzati e incapaci di prendere decisioni politiche coraggiose. Proprio contro i partiti l’attuale presidente ha lanciato la sua sfida. Al posto di questi – colpevoli dell’economia in declino e della forte disoccupazione, secondo i sostenitori dell’attuale presidenza –, Saïed ha incoraggiato gli individui a candidarsi indipendentemente promuovendo programmi in favore delle loro stesse comunità. Il risultato è stato di 1.055 candidati (di cui 173 donne) per 161 seggi e una forte incertezza per coloro che avrebbero dovuto esprimere la propria scelta. La nuova legge elettorale prevede elezioni dirette attraverso un sistema maggioritario a doppio turno. Ciò fa seguito agli emendamenti alla legge elettorale del 2014 emanati lo scorso settembre che hanno cambiato il sistema. Inoltre, con la rivisitata legge elettorale non è stata incoraggiata la rappresentanza delle donne e delle minoranze: è stato eliminato l’obbligo di alternare candidati uomini e donne nella lista e di includere candidati sotto i 35 anni e persone con disabilità. […]